Simona Piccolo
Le caratteristiche tipiche della domus romana

Nel complesso mondo romano troviamo svariati tipi di residenze civili, quali le domus, gli Horti, le ville urbane, le ville suburbane e le ville rustiche. Le più spettacolari dal punto di vista architettonico e ornamentale erano senza dubbio le case dei patrizi, che potevano permettersi i costi di abitazioni sontuose; in età romana ogni nobile che si rispettasse poteva vantarsi di possedere almeno due abitazioni: una domus in città e una villa, ovvero una casa di campagna ubicata spesso molto lontano dalla capitale.

La Domus (Fig. 1) era la casa signorile, strutturata generalmente su un piano, talvolta anche su due, senza finestre né balconi all’esterno, di forma rettangolare. Le finestre erano rare e poste molto in alto. Occhi indiscreti e ladri venivano quindi tenuti lontani.

La domus era costruita con mattoni o calcestruzzo (composto di calce, sabbia, ghiaia e acqua per l’impasto) e si suddivideva in due parti. La parte anteriore aveva al centro un grande vano, l’atrium, con un’ampia apertura sul soffitto spiovente verso l’interno (compluvium), da esso scendeva l’acqua piovana, che veniva raccolta in una vasca rettangolare (impluvium) sistemata nello spazio sottostante. L'impluvium svolgeva anche la funzione di contribuire a rendere più luminosa la casa, riflettendo la luce solare e l'azzurro del cielo. Nella domus si entrava attraverso l’ostium, che era la porta affacciata sulla strada; la quale immetteva direttamente in un corridoio, detto vestibolo (vestibulum), che, a sua volta, conduceva alla vera e propria entrata (fauces) che portava poi nel già citato atrium. Sul fondo dell’atrio, proprio di fronte all’entrata, si trovava una grande sala di soggiorno (tablinum) separata dall’atrio grazie all’utilizzo di tende pregiate. In questa parte della casa erano esposte le immagini degli antenati, le statue dei Lari, dei Mani e dei Penati protettori della casa, della famiglia e di altre divinità, le opere d'arte, gli oggetti di lusso e altri segni di nobiltà o di ricchezza; qui il padrone di casa riceveva i visitatori. La vita privata della famiglia si svolgeva di solito nella parte posteriore della casa, raccolta intorno all’hortus, un giardino ben curato, che poteva anche essere circondato da un portico a colonne (peristylium) e ornato da statue, marmi e fontane. Le camere da letto, che davano sul giardino prendevano il nome di cubicula. La sala da pranzo veniva chiamata triclinium perché conteneva tre letti a tre posti (chiamati, appunto, triclinares) su cui i romani si sdraiavano durante i banchetti. I triclini erano lussuosi, con affreschi alle pareti e mosaici ai pavimenti. I tre letti erano di solito posti a semicerchio per favorire il passaggio della servitù durante i banchetti. In epoca imperiale vi era nelle domus un secondo triclinio sul fondo del peristilio ed era detto exhedra, sala per feste e ricevimenti.

La Villa era essenzialmente una casa di campagna sviluppatasi in particolare in Italia a partire dall’età tardo­repubblicana. Sorgeva come residenza padronale al centro di un complesso di edifici e di terreni destinati alla produzione agricola oppure come luogo per i riposi (otia) dalle attività e dagli affari (negotia) praticati in città. Secondo Plinio il Vecchio e Vitruvio c’erano due tipi di villa: la villa urbana, una residenza di campagna facilmente raggiungibile da Roma (o dalla città principale in generale) in una notte o due, e la villa rustica, la residenza con funzioni di fattoria occupata in permanentemente da servi o da schiavi che ci lavoravano per i padroni.

La Villa urbana può essere considerata la sede del benessere dei Romani più ricchi, il luogo dove si rilassavano e intrattenevano relazioni sociali. Col tempo le ville urbane vennero ampliate, diventando sempre più simili alle residenze cittadine. Dotate di ogni comodità, spesso erano più grandi delle domus di città ed erano autosussistenti. Potevano contenere biblioteche, sale di lettura, stanze termali per il bagno caldo, freddo e tiepido, una piscina scoperta ed una palestra. Ampi porticati permettevano passeggiate all’aperto. Erano circondate poi da parchi e giardini molto curati. Una delle ville romane più maestose che si possono tuttora visitare è Villa Adriana a Tivoli. Ma si possono ricordare anche le ville di Baia e Posillipo, la Villa dei Misteri a Pompei, la Domus Aurea di Nerone a Roma.

Dal numero delle ville costruite nel nostro territorio si può facilmente desumere quanto i Romani abbiano apprezzato il territorio campano; alcune delle più importanti e anche meglio conservate ville romane si trovano proprio nei pressi della vecchia Neapolis. Non è difficile capire il motivo di questo amore che i romani avevano per Napoli: essa era una città tanto bella quanto funzionale, offriva molti sbocchi sul mare, il terreno nell’area vesuviana era fertilissimo e soprattutto il panorama del mare, del Vesuvio e della costiera ha dato per secoli, ispirazione a pittori, scrittori e filosofi. Da Virgilio, che scelse Napoli come sua eterna dimora, e dove tutt’oggi la sua tomba risiede, agli artisti moderni che hanno affermato di aver trovato in questa terra un vero e proprio paradiso.

Abbiamo diverse testimonianze illustri circa le residenze romane nel territorio Campano (soprattutto a Napoli, Capri e Pompei); le più conosciute e significative sono quelle di Le Corbusier e Goethe.
Il grande architetto, urbanista, pittore, scultore e scrittore svizzero naturalizzato francese Charles­Edouard Jeanneret­Gris, detto Le Corbusier, tra i padri del movimento moderno, nel 1907 visitò le principali città italiane producendo un abbondante quaderno di schizzi di architetture del passato con, a margine di ogni disegno, annotazioni e appunti sui materiali, sui colori, sulle forme. Ciò gli consentì di acquisire un bagaglio culturale che affondava le radici nel passato e persino di rendergli chiara la sua passione per l'architettura, nonostante egli non abbia mai compiuto studi regolari in questo ambito. (Fig. 2 e 3)
   
Nell’ambito di tale tour, tappa fondamentale fu senz’altro Pompei che divenne per lui fertile strumento di ispirazione, come testimoniato dai numerosi e vivaci schizzi che accompagnarono le sue passeggiate tra le vestigia romane e che corredano il testo (in Le Corbusier, 1923). Memorabili sono, del resto, non solo i disegni ma anche le sue descrizioni del Foro e delle domus, dalla casa delle Nozze d’Argento a quella del Poeta Tragico, che grande importanza avranno per i suoi progetti e le sue costruzioni. Il giovane artista soggiornò all’Hotel del Sole, allora ubicato di fronte all’ingresso di piazza Anfiteatro, in una Pompei che non era ancora un comune autonomo. Qui Le Corbusier si lasciò ammaliare da un elemento in particolare: le case dei romani, esperienza fondante della sua poetica architettonica che ancor oggi influenza il mondo dell’arte moderna, confermando Pompei eterna musa dell’Arte per coloro che sanno guardarla con occhio incantato e attento e così reinventarla nel presente.
Nel suo carnet, tra le altre cose, egli annota: “CASA DEL NOCE, a Pompei. Ancora il piccolo vestibolo che toglie dai vostri pensieri la strada. Ed eccovi nel cavedio (atrium), quattro colonne nel mezzo (quattro cilindri) si innalzano all'improvviso verso l'ombra del tetto, sensazione di forza e testimonianza di mezzi possenti; ma in fondo lo splendore del giardino visto attraverso il peristilio che dispiega con un gesto largo questa luce, la distribuisce, la segnala, estendendosi lontano a destra e a sinistra, definendo un grande spazio. Tra i due, il tablino che racchiude questa visione come l'oculare di un apparecchio. A destra, a sinistra, due spazi d'ombra, piccoli. Dalla strada di tutti e brulicante, piena di cose pittoresche, siete entrati nella casa di un Romano. La grandezza maestosa, l'ordine, l'ampiezza magnifica: siete nella casa di un Romano. A che cosa serviranno queste stanze? È fuori questione. Dopo venti secoli, senza allusioni storiche, sentite l'architettura e tutto ciò è in realtà una casa molto piccola.” (Figg. 3 e 4 del libro).
Più avanti (Fig. 4): “Ed ecco nella CASA DEL POETA TRAGICO le raffinatezze di un'arte consumata. Tutto è costruito intorno all'asse, ma difficilmente potrebbe esservi tracciata una linea retta. L'asse è nelle intenzioni e il fasto da esso prodotto si estende alle cose umili che con un gesto abile (i corridoi, il passaggio principale, eccetera) investe mediante l'illusione ottica. L'asse non è qui aridità teorica, ma collega dei volumi portanti e nettamente inscritti e differenziati gli uni dagli altri. Quando si visita la Casa del Poeta Tragico si constata che tutto è in ordine. Ma la sensazione è ricca, si osservano abili disassamenti che danno l'intensità ai volumi: il motivo centrale della pavimentazione è respinto indietro dal centro della stanza; il pozzo dell'ingresso è dalla parte della vasca. La fontana nel fondo è in un angolo del giardino. Un oggetto collocato al centro di una stanza spesso la uccide perché impedisce di collocarsi al centro della stanza e avere la visione assiale; un monumento nel mezzo di una piazza uccide spesso la piazza e gli edifici che la chiudono: spesso, ma non sempre; è una situazione specifica che ha di volta in volta le sue ragioni. L'ordine è la gerarchia degli assi, dunque la gerarchia dei fini, la classificazione delle intenzioni.” (Fig.10 del libro)
Altra significativa testimonianza è quella di Johann Wolfgang Goethe, grande scrittore e poeta tedesco tra Sette e Ottocento. “Da quanto si dica, si narri, o si dipinga, Napoli supera tutto: la riva, la baia, il golfo, il Vesuvio, la città, le vicine campagne, i castelli, le passeggiate … Io scuso tutti coloro ai quali la vista di Napoli fa perdere i sensi!”: con queste parole il tedesco non ha fatto altro che rendere pubblico il suo amore per una città eterna come Napoli, città nella quale ha soggiornato per un lungo periodo e che ha descritto in ogni sua sfumatura nell’opera ‘Viaggio in Italia’, nella quale racconta sotto forma di diario personale le esperienze vissute e le cose viste nelle più grandi città d’arte italiane, tra cui Napoli. In questa sua opera egli descrive Napoli come città serena e allegra, e non manca occasione per citare, oltre alle numerose bellezze naturali del territorio, la fertilità del terreno nelle zone vesuviane; egli scrisse addirittura che “in questi paesi si capisce come mai l’uomo ha iniziato a lavorare la terra”. Goethe capì quindi che città come Pompei, Capua e Ercolano non si trovavano a caso in quella zona, e che i Romani le avevano scelte non solo per la paesaggistica, ma soprattutto per la rigogliosità del territorio. Nei giorni che ha passato a Napoli, non sono mancate le visite agli scavi Romani di Pompei ed Ercolano, sulle quali si è soffermato molto ad indicare la bellezza architettonica di quelle antichissime abitazioni sepolte nella lava più di 1500 anni prima. Comincia a descrivere la sua visita a Pompei con queste parole: “Molte sciagure sono accadute nel mondo, ma poche hanno procurato altrettanta gioia alla posterità.”
Qui alcuni stralci del suo diario: “Con la sua piccolezza e angustia di spazio, Pompei è una sorpresa per qualunque visitatore: strade strette ma diritte e fiancheggiate da marciapiedi, casette senza finestre, piccole e anguste, ma che contengono all'interno elegantissime pitture, con stanze riceventi luce dai cortili e dai loggiati attraverso le porte che vi si aprono; gli stessi pubblici edifici, la panchina presso la porta della città, il tempio e una villa nelle vicinanze, simili più a modellini e a case di bambola che a vere case. Ma tutto, stanze, corridoi, loggiati, è dipinto nei più vivaci colori: le pareti sono monocrome e hanno al centro una pittura eseguita alla perfezione, oggi però quasi sempre asportata; agli angoli e alle estremità, lievi e leggiadri arabeschi, da cui si svolgono graziose figure di bimbi e di ninfe, mentre in altri punti belve e animali domestici sbucano da grandi viluppi di fiori. E la desolazione che oggi si stende su una città sepolta dapprima da una pioggia di lapilli e di cenere, poi saccheggiata dagli scavatori, pure attesta ancora il gusto artistico e la gioia di vivere d'un intero popolo, gusto e gioia di cui oggi nemmeno l'amatore più appassionato ha alcuna idea, né sentimento, né bisogno.”

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