Micaela Esposito
Plinio il Giovane: descrizione della morte dello zio Plinio il Vecchio

Gaio Plinio Cecilio Secondo, detto il Giovane, nato a Como nel 61, era figlio di una sorella di Plinio il Vecchio; rimasto presto orfano di padre, fu adottato dallo zio materno del quale assunse il nome. Di ricchissima famiglia del ceto equestre, studiò retorica a Roma con Quintiliano e con Nicete Sacerdote. A 19 anni esordì nella carriera forense e divenne avvocato di successo; intraprese subito la carriera pubblica che fu rapida e fortunata. Fu nominato tribuno militare in Siria, comandante di uno squadrone di cavalieri e questore. Nel 90 entrò nell'ordine senatorio. Divenne poi tribuno della plebe, pretore, prefetto dell'erario militare e prefetto dell'erario di Saturno, console nel 100, anno in cui sostenne con l'amico fraterno Tacito l'accusa contro il proconsole d'Asia Marco Prisco, reo di malversazione. Fu nominato legato imperiale in Bitinia e morì nel 113 d.C. durante l'esercizio di tale funzione o, forse, subito dopo il ritorno in Italia. Uomo ricchissimo, intelligente, cordiale e simpatico, fu amico dei più importanti personaggi del mondo politico e letterario del suo tempo.

Le Epistulae

L'opera più importante e originale di Plinio sono i 10 libri delle Epistole. I primi nove furono pubblicati dall'autore e comprendono 247 lettere di varia lunghezza inviate a familiari e amici. Nella prima, a Setticio Claro, Plinio dichiara di aver riunito le lettere a caso, senza nessuna valutazione critica o di ordine cronologico; ma è solo falsa modestia, perché esse sono evidentemente composte per la lettura e la pubblicazione ¬ se non addirittura per i posteri ¬ come rivela l'accorta alternanza dei temi proposti, ordinati sul piano artistico con lo scopo di evitare la monotonia, e la semplice ma sorvegliata eleganza della scrittura. Non hanno quindi l'immediatezza talora drammatica delle lettere di Cicerone, cui pure Plinio intendeva fare riferimento. Le lettere offrono un quadro molto particolareggiato della vita quotidiana di Roma, importante per gli storici e per gli archeologi: illustrano le occasioni e le manifestazioni culturali, specie le declamazioni e recitazioni poetiche, magnificano le sue numerose ville, parlano della vita familiare e delle amicizie, fanno cenno ai letterati più famosi, da Marziale a Silio Italico, da Svetonio a Tacito. Altre sono semplici biglietti d'invito, di raccomandazione, di condoglianze, di affari. In alcune lettere Plinio dimostra notevoli capacità descrittive come in quelle sulle fonti del Clitunno, sull'inondazione del Tevere o, come nella più famosa, indirizzata a Tacito, in cui è descritta l'eruzione del Vesuvio del 79, che distrusse le città campane di Ercolano, Pompei, Stabia e in cui morì Plinio il Vecchio. Il decimo libro fu pubblicato postumo, con la corrispondenza dell'autore, a quel tempo governatore della Bitinia, a Traiano ¬ 79 lettere ¬ con 50 risposte dell'imperatore ai quesiti di natura fiscale, politica e amministrativa postigli dal suo solerte quanto indeciso funzionario. A lettere su argomenti di importanza secondaria si alternano altre su temi di grande rilievo, come la 96, che riguarda il problema del comportamento da tenersi nei processi contro i cristiani; molto equilibrata è la risposta di Traiano ¬ lettera 97 ¬ che impone di non tener conto delle denunce anonime e comunque di sospendere i processi contro i cristiani, qualora questi accettino di sacrificarsi all'imperatore.

Epistula VI 16; 4-20: eruzione del Vesuvio e morte dello zio Plinio il Vecchio

A Miseno, l’una pomeridiana del 24 agosto del 79 d.C., luogo in cui Plinio il Vecchio riposava, in lontananza si vide una lunga nube da forme mai viste prima. Di qui si accinse a raggiungere un posto dove potesse essere più comprensibile la vista di tale prodigio. Davanti ai suoi occhi si manifestò un magnifico spettacolo: una grande nube, simile ad un albero di pino marittimo, si slanciava verso il cielo come sorretta da un immenso tronco e che poi si allargava in forma ramificata. Priva di sostegno la nube si spandeva in larghezza talora candida, talora sporca e carica di terra o cenere . Lo zio incuriosito decise di andare ad ispezionare il fenomeno da vicino come uno scienziato. Si fece preparare una bireme e diede la possibilità al nipote Plinio di seguirlo; ma questi preferì continuare a studiare il lavoro assegnatogli dallo zio in precedenza. Mentre stava uscendo di casa, Plinio il vecchio ricevette una missiva da parte di Rectina, moglie di Casco, terrorizzata dal pericolo incombente, poiché la sua villa sorgeva ai piedi del Vesuvio e non permetteva scampo se non per mare, lo pregava di salvarla. Così da semplice curiosità la sua si trasforma in una vera e propria impresa: fece mettere in mare le quadriremi e salpò per aiutare i numerosi abitanti di “quella costa ridente”. Si ritrovò così nel cuore del pericolo e immune di paura descrisse ciò che si presentava ai suoi occhi: le navi si ricoprivano sempre più di cenere e lapilli e il litorale ostruito da pietre nere e spaccate dal fuoco. Plinio esortò il pilota delle navi a procedere verso Pomponiano a Stabia (oggi Castellammare di Stabia) e come buon comandante vuole, consapevole del pericolo che tutti stavano correndo, si intrattiene a tavola e cena con allegria descrivendo ai suoi ospiti che le strisce di fuoco che illuminavano la notte erano semplicemente fuochi lasciati accesi dai contadini in campagna. Dopodiché andò a riposare e dormì così profondamente tanto che si sentiva, dalla sua porta, il rumore del suo respiro. Intanto la cenere coprì maestosamente il cortile e Plinio venne svegliato e fatto uscire. Successivamente, arrivato a Pomponiano indusse un consiglio con gli abitanti per decidere se rimanere in casa con il tremore della terra o fuggire per le campagne temendo la caduta di pomici e ceneri. Decisero per quest’ultima e fuggirono usando dei cuscini legati con strisce di tela sulla testa. Si diressero verso la riva del mare dove là Plinio fece stendere un drappo per terra e si sdraiò. La puzza di zolfo invase la zona e il vecchio Plinio, già con problemi di gola, non riuscì a sopravvivere all’aria pesante. Il suo cadavere fu ritrovato tre giorni dopo intatto: tanto da sembrare dormiente.

DESCRIZIONE DELL’ESPLOSIONE DEL VULCANO NEL 79 A.C.

Erat Miseni classemque imperio praesens regebat. nonum Kal. Septembres hora fere septima mater mea indicat ei apparere nubem inusitata et magnitudine et specie. usus ille sole, mox frigida, gustaverat iacens studebatque; poscit soleas, ascendit locum, ex quo maxime miraculum illud conspici poterat. Nubes, incertum procul intuentibus, ex quo monte (Vesuvium fuisse postea cognitum est), oriebatur, cuius similitudinem et formam non alia magis arbor quam pinus expresserit. nam longissimo velut trunco elata in altum quibusdam ramis diffundebatur, credo, quia recenti spiritu evecta, dein senescente eo destituta aut etiam pondere suo victa in latitudinem vanescebat, candida interdum, interdum sordida et maculosa, prout terram cineremve sustulerat. Magnum propiusque noscendum, ut eruditissimo viro, visum. iubet liburnicam aptari: mihi, si venire una vellem, facit copiam; respondi studere me malle, et forte ipse, quod scriberem, dederat. egrediebatur domo: accipit codicillos Rectinae Casci imminenti periculo exterritae (nam villa eius subiacebat, nec ulla nisi navibus fuga); ut se tanto discrimini eriperet, orabat. vertit ille consiIium et, quod studioso animo incohaverat, obit maximo. deducit quadriremes, ascendit ipse non Rectinae modo, sed multis (erat enim frequens amoenitas orae) laturus auxilium. properat illuc, unde alii fugiunt, rectumque cursum, recta gubernacula in periculum tenet adeo solutus metu, ut omnis illius mali motus, omnis figuras, ut deprenderat oculis, dictaret enotaretque. Iam navibus cinis incidebat, quo propius accederent, calidior et densior, iam pumices etiam nigrique et ambusti et fracti igne lapides, iam vadum subitum ruinaque montis litora obstantia. cunctatus paulum, an retro flecteret, mox gubernatori, ut ita faceret, monenti 'fortes', inquit, 'fortuna iuvat, Ponponianum pete!' Stabiis erat, diremptus sinu medio (nam sensim circumactis curvatisque litoribus mare infunditur); ibi, quamquam nondum periculo appropinquante, conspicuo tamen et, cum cresceret, proximo, sarcinas contulerat in naves certus fugae, si contrarius ventus resedisset. quo tune avunculus meus secundissimo invectus; complectitur trepidantem, consolatur, hortatur, utque timorem eius sua securitate leniret, deferri in balineum iubet: lotus accubat, cenat aut hilaris aut, quod aeque magnum, similis hilari. Interim e Vesuvio monte pluribus locis latissimae flammae altaque incendia relucebant, quorum fulgor et claritas tenebris noctis excitabatur. ille agrestium trepidatione ignes relictos desertasque villas per solitudinem ardere in remedium formidinis dictitabat. tum se quieti dedit et quievit verissimo quidem somno. nam meatus animae, qui illi propter amplitudinem corporis gravior et sonantior erat, ab iis, qui limini obversabantur, audiebatur. Sed area, ex qua diaeta adibatur, ita iam cinere mixtisque pumicibus oppleta surrexerat, ut, si longior in cubiculo mora, exitus negaretur. excitatus procedit seque Pomponiano ceterisque, qui pervigilaverant, reddit. in commune consultant, intra tecta subsistant an in aperto vagentur. nam crebis vastisque tremoribus tecta nutabant et quasi emota sedibus suis nunc huc, nunc illuc abire aut referri videbantur. subdio rursus quamquam levium exesorumque pumicum casus metuebatur; quod tamen periculorum collatio elegit. et apud illum quidem ratio rationem, apud alios timorem timor vicit. cervicalia capitibus imposita linteis constringunt; id monimentum adversus incidentia fuit. Iam dies alibi, illic nox omnibus noctibus nigrior densiorque, quam tamen faces multae variaque lumina solabantur. placuit egredi in litus et ex proximo adspicere, ecquid iam mare admitteret, quod adhuc vastum et adversum permanebat. ibi super abiectum linteum recubans semel atque iterum frigidam poposcit hausitque. deinde flammae flammarumque praenuntius odor sulpuris alios in fugam vertunt, excitant Illum. innitens servolis duobus adsurrexit et statim concidit, ut ego colligo, crassiore caligine spiritu obstructo clausoque stomacho, qui illi natura invalidus et angustus et frequenter interaestuans erat. ubi dies redditus (is ab eo, quem novissime viderat, tertius), corpus inventum integrum, inlaesum opertumque, ut fuerat indutus: habitus corporis quiescenti quam defuncto similior.

“Era a Miseno e teneva personalmente il comando della flotta. Il 24 di agosto, verso l’una pomeridiana mia madre lo avverte che spuntava una nube di grandezza e forme inusitate. Dopo un bagno di sole e uno freddo, si era sdraiato sul suo letto da lavoro, dove aveva consumato uno spuntino ed era intento allo studio. Allora domanda i sandali e sale in una località che consentiva la vista più agevole al prodigio. Si stava alzando una nube, ma senza che a così grande distanza si potesse distinguere l’esatta provenienza(si seppe poi che proveniva dal Vesuvio) e nessun altro albero meglio del pino potrebbe riprodurne l’aspetto e la forma. Slanciandosi infatti verso il cielo come sorretta da un immenso tronco, si allargava poi in forma ramificata, forse perché la potenza del turbine che dapprima l’aveva sollevata si andava spegnendo: priva di sostegno dunque, o forse anche vinta dal suo stesso peso, la nube si spandeva in larghezza, talora candida, talora sporca e chiazzata a seconda che fosse carica di terra o di cenere. L’importanza del fenomeno non sfuggì a mio zio, che, da scienziato,, volle esaminarlo più da vicino. Si fece preparare una liburnica e mi diede anche la possibilità di seguirlo, ma gli risposi che preferivo studiare. Infatti proprio lui mi aveva assegnato un lavoro scritto. Stava giusto uscendo di casa, quando gli viene recapitata una missiva con la quale Rectina, moglie di Casco, terrorizzata dal pericolo incombente (infatti la sua villa sorgeva proprio ai piedi del Vesuvio e la zona non permetteva scampo se non per mare), lo pregava di salvarla da una posizione molto critica. Egli cambia allora programma e affronta per magnanimità l’impresa che aveva intrapreso per semplice curiosità scientifica. Fa mettere in mare le quadriremi e anch’egli vi sale per portare aiuto non solo a Rectina, ma ai numerosi abitanti di quella costa ridente. Si dirige in tutta fretta proprio là donde gli altri fuggono e punta la rotta e il timone direttamente nel cuore del pericolo, tanto immune dalla paura da dettare e fissare sulla carta tutte le successive configurazioni del cataclisma, così come si presentavano ai suoi occhi. Ormai, quanto più si avvicinavano, sulle navi cadeva una cenere sempre più calda e più spessa, mista a pomici e a pietre nere bruciate e spaccate dal fuoco; per di più si era formato all’improvviso un basso fondale e i materiali precipitati dalla montagna avevano ostruito il litorale. Dopo un attimo di esitazione sull’eventualità di fare ritorno, disse al pilota che proprio a questo lo esortava: “La fortuna aiuta i forti, dirigiti alla dimora di Pomponiano”. Pomponiano si trovava a Stabia, dall’altra parte del golfo(infatti il mare penetra nella dolce insenatura formata dalle rive disposte ad arco) e alla vista del pericolo che era ancor lontano, ma incombente in tutta la sua grave evidenza, perché la nube cresceva quando si avvicinava, aveva caricato sulle navi tutte le sue masserizie, pronto a prendere il largo non appena fosse caduto il vento contrario. Mio zio, invece, approda col vento in favore, lo abbraccia, lo conforta e lo rassicura nella sua trepidazione e , per dissipare i timori di quello con l’esempio della propria serenità, si fa portare nel bagno, dopo che si mette a tavola e cena in allegria o – cosa non meno generosa- simulando di essere allegro. Intanto in più punti del Vesuvio si vedevano brillare ampie strisce di fuoco e alte vampate di cui le tenebre della notte facevano risaltare il bagliore. Egli, per calmare lo sgomento dei suoi ospiti, andava dicendo che si trattava di fuochi lasciati accesi dai contadini nell’affanno della fuga e di case abbandonate alle fiamme nella campagna. Poi andò a riposare e dormì di un sonno realmente profondo, perché passando davanti alla sua porta riuscivano a percepirne il respiro, che la sua corpulenza rendeva pesante e rumoroso. Intanto però il cortile da cui si accedeva alla sua camera si era tanto alzato di livello per la precipitazione di cenere e pomici che, se egli vi fosse rimasto più a lungo, gli sarebbe stato impossibile uscirne. Lo si sveglia, dunque; egli esce e raggiunge Pomponiano e gli altri che avevano vegliato. Tengono consiglio per decidere se restare in casa al coperto o fuggire per la campagna. Infatti i caseggiati traballavano sotto la spinta di frequenti scosse ad ampio raggio e, quasi rimossi dalle loro fondamenta, sembrava che sbandassero ora da una parte ora dall’altra per poi tornare in sesto; d’altra parte, stando all’aperto, c’era da temere la caduta di pomici, per quanto leggere e corrose. Tuttavia il confronto dei due pericoli indusse a preferire quest’ultima soluzione: in mio zio una ragione prevalse sull’altra. Si mettono sopra la testa dei cuscini e li legano con strisce di tela: questo fu il loro riparo contro i materiali che piovevano dall’alto. Altrove era ormai giorno, ma là persisteva una notte più scura e più fitta di tutte le notti, benché punteggiata di numeroso fiaccole e di luci di vario genere. Si decise di uscire sulla riva del mare per controllare da vicino se permetteva qualche tentativo, ma lo si vide ancora sconvolto e impraticabile. Là mio zio fece stendere un drappo per terra e vi si sdraiò, domandò a più persone acqua fresca e ne bevve. Ma ben presto fiamme e puzza di zolfo, preannunzio di fiamme, inducono tutti gli altri alla fuga e lo ridestano; egli riuscì a sollevarsi appoggiandosi a due giovani schiavi, ma nello stesso istante stramazzò; immagino che l’aria sovraccarica di caligine gli abbia arrestato la respirazione occludendogli la gola che egli aveva debole già per costituzione, gonfia e spesso infiammata. Quando riapparve la luce del sole erano passati tre giorni da quello che per lui era stato l’ultimo; il suo cadavere fu ritrovato intatto, illeso e senza alcunché di notevole nello stato del vestiario: l’atteggiamento delle sue membra era quello del sonno, non della morte.”