Per comprendere il dibattito sulle marcite, che coinvolge numerosi illustri intellettuali tra Settecento e Ottocento, ènecessario collocarlo all'interno del periodo culturale di riferimento, ossia nel passaggio tra l'Illuminismo settecentesco, l'età napoleonica e gli anni della Restaurazione, epoche tutte che vedono una fattiva collaborazione tra intellettuali e potere e che gettano le basi della progressiva crescita economica della nostra regione, che culminerà nel suo processo di industrializzazione.
In Europa la seconda metà del Settecento è infatti caratterizzata dal movimento culturale dell’Illuminismo, che si contrappone all’irrazionalità del passato nella vita politica, economica, sociale, morale e intellettuale, combattendo l’ignoranza e le superstizioni. Si persegue il “lume”della ragione, guardando spesso ai secoli precedenti come a una lunga serie di errori. Si diffonde d'altra parte un atteggiamento di apertura, di cosmopolitismo: l’uomo diviene cittadino del mondo. Strettamente legati a questa nuova visione, sono gli ideali di filantropismo, umanitarismo, tolleranza, di lotta contro ogni dogmatismo e fanatismo, per assicurare una profonda libertà di pensiero e un crescente progresso della società.
La razionalità prevale su ogni cosa: ci si affida alle verifiche, agli esperimenti, all’esperienza, considerata l’unico criterio di verità che possa creare conoscenze sicure. Tra la natura e la ragione gli illuministi non vedono conflitto, ma equilibrio; nascono e affiorano le teorie sensiste legate alle sensazioni del corpo e dunque ai cinque sensi. Sono soprattutto la borghesia e gli intellettuali appartenenti all’aristocrazia a sviluppare tale atteggiamento critico, condividendo i principi di questo movimento.
L’illuminismo, nato contemporaneamente in Inghilterra, grazie alla libertà di stampa, e in Francia, grazie all’avvento del dizionario ragionato, l’Enciclopedia, in Italia si sviluppa in leggero ritardo e con esiti differenti in base ai contesti culturali dei singoli stati; nel nostro paese i fattori che ne ostacolano la diffusione sono da ricercare soprattutto nella debolezza di una borghesia imprenditoriale numericamente esigua e pertanto incapace di sostituirsi ai centri del potere tradizione come l’aristocrazia terriera e la Chiesa. Vedremo infatti che, paradossalmente, i principali esponenti dell'Illuminismo italiano non proverranno dalla borghesia, ma dall'aristocrazia milanese, come nel caso dei fratelli Verri o di Cesare Beccaria. Proprio a Milano, infatti, il dominio degli austriaci favorisce il sorgere di un movimento che trova appoggio in sovrani illuminati quali Maria Teresa e Giuseppe II, i quali conducono, in accordo con i ceti borghesi emergenti, opere di ristrutturazione degli ordini feudali e di riorganizzazione dell’apparato amministrativo, al fine di un incremento delle attività industriali e commerciali.
L’illuminismo lombardo si preoccupa di divulgare le nuove idee presso un pubblico di non letterati, mediante lo strumento giornalistico: uno dei piùi mportanti periodici è “Il Caffè”, curato dai fratelli Verri. Il programma della rivista punta a una letteratura di argomenti vivi e attuali, civilmente impegnata e intesa a promuovere la pubblica utilità attraverso la diffusione delle nuove idee progressiste, proponendo un linguaggio immediato, lontano dagli artifici retorici dei classicisti.
Proprio durante il Settecento il lavoro intellettuale conosce così una progressiva evoluzione verso la professionalizzazione. Nel rapporto di collaborazione con il sovrano o con gli apparati statali, l’intellettuale guadagna autonomia e forza in funzione dell’importanza dei compiti a lui delegati: egli è infatti incaricato dello studio e della realizzazione di quegli interventi necessari al funzionamento della macchina statale.
In Lombardia si pone una particolare attenzione all’agricoltura; il ceto dei proprietari terrieri era stato infatti stimolato a individuare migliori e piùproficue tecniche di messe a coltura. Uomini di pensiero, quali Cesare Beccaria e Pietro Verri, pubblicano veri e propri studi di economia agraria destinati poi a stimolare le osservazioni, di lì a pochi anni, di scienziati come Filippo Re, o di teorico-pratici come Domenico Berra.
A cavallo tra i secoli XVIII e XIX “il genio dell’agricoltura” pervade la società milanese a tal punto che intellettuali dediti a tutt’altre discipline spendono molte energie e risorse in questa materia. Alessandro Volta, ad esempio, si dedica alla diffusione della coltura della patata. Parlare di agricoltura infatti era divenuta quasi una moda nei salotti lombardi, i quali erano destinati alla circolazione delle idee, al formarsi dell’opinione pubblica, mentre nei circoli accademici gli studi teorici incontravano l’attenzione dei funzionari di governo. Inoltre non era più accettabile che un aristocratico o un borghese vivesse di rendita, basandosi solamente sullo sfruttamento dei propri terreni affidati a fittavoli intraprendenti.
Il terreno doveva ricevere le attenzioni del proprietario in prima persona, il quale aveva il compito di dedicarsi al controllo dell’andamento delle colture e alla salubritàdegli insediamenti rurali, occupandosi della produttività e delle tendenze dei mercati. Mario Romani, ne “L’agricoltura in Lombardia dal periodo delle riforme al 1859”, racconta che, a partire dal secolo XVII e fino alla metàdel XIX, l’organizzazione della Lombardia vede la “prevalenza della ruralità” ed essa risulta la sua “caratteristica dominante”.
“Il possesso fondiario rappresenta l’elemento fondamentale” a cui affidare gli interessi collettivi ed economici. Le prime statistiche redatte nel Milanese fra il 1805 e il 1836 indicano percentuali pari all’85% relative alla quota di popolazione addetta alle attività agricole. Domenico Berra, divenuto in breve tempo esperto d’agricoltura, stimato dal conte Filippo Re, professore di agraria a Bologna e a Pavia, nei primi dell’Ottocento pubblica giài suoi articoli nei prestigiosi “Annali dell’agricoltura del Regno D’Italia”, diretti dallo stesso Re.
Nel 1811 esce il suo celebre saggio “Delle marcite", dove egli esprime le proprie tesi riguardo le campagne irrigue della Bassa Milanese, le quali, grazie alla presenza delle risorgive e dei fontanili, risultano essere le più produttive per le colture di foraggio e per l’allevamento bovino, senza che, a suo parere, l’umidità di tali fondi sia di pregiudizio alla salute e alla resa lavorativa dei contadini.
Da rilievi condotti negli anni precedenti, invece, paradossalmente risultava che in poco meno di un decennio erano state perse più di ventimila pertiche di prato irriguo. Tale tendenza viene implicitamente attribuita da Domenico Berra alla forte critica che i fratelli Verri, pochi decenni prima, avevano mosso alle condizioni di vita negli insediamenti rurali della pianura lombarda. Pietro Verri infatti, alla fine del Settecento aveva sostenuto che l’umidità del suolo, unita a quella dell’aria, producesse una “malaria”, ossia un’aria malsana, da cui la conseguente debolezza e precarietà della salute dei contadini.
Nel suo trattato del 1769 “Sulle leggi vincolanti principalmente nel commercio de grani” egli riferiva che erano in molti a non credere che l’umidità, sempre maggiore, nei siti coperti d’acqua, incidesse negativamente sulla salubrità del clima. La popolazione milanese sembrava infatti non diminuire, ma al contrario aumentare; invece, confrontando i registri del 1730-1764 con quelli del 1764-1769, in proporzione era dimostrabile sì un aumento della popolazione, ma anche un aumento del tasso di mortalità.
Con questo Verri proponeva la sostituzione delle colture irrigue, marcite e risaie, con quello del grano. Questa valutazione negativa era tanto radicata nel comune sentire che anche Parini, nel 1759 aveva scritto un'ode al riguardo “La salubrità dell’aria.” Essa fa parte delle cosiddette odi “illuministiche”, ossia di quel gruppo di odi che trattano dei problemi strettamente legati all'attualità. Influenzato dalle teorie fisiocratiche, egli sottolinea il contrasto tra l’ambiente sano della campagna e quello cittadino, malsano sia ecologicamente che economicamente.
Il problema risiede infatti nell’igiene e nella salute pubblica, compromesse dalla presenza di risaie e marcite nell’intorno cittadino che ammorbano l’aria. L’autore costruisce puntuali contrapposizioni tra i coltivatori del riso, pallidi e “malaticci” e i contadini brianzoli che, anche se sottoposti a dure fatiche nei propri campi, sono vegeti e robusti, inserendosi anche lui in questo dibattito culturale.
Agli apici della poesia didascalica, filone coltivato anche da Parini col Giorno, si pone negli stessi anni il poemetto “La coltivazione del riso” del marchese veronese Gianbattista Spolverini. Egli, al contrario, suggerisce il ruolo decisivo del riso nella successione delle colture. Quest’opera è divisa in quattro libri e il primo è dedicato proprio alla scelta del terreno e a quella dell'acqua, i due elementi essenziali della coltura, che offrono all'autore l'occasione per valenti digressioni nell’ambito agronomico, dalla tipologia dei suoli alla disposizione degli appezzamenti del podere, dal tracciamento dei fossi di scolo alle precauzioni contro i cattivi vicini.
Nei primi versi del poema si denota l’importanza del riso, quando l’autore esprime la speranza che “il frumento sottentri al prossim’anno, / perché ceda esso ancor, o s'altro piace,/ Loco, la terza Primavera, al Riso”. Ad ogni modo la fortuna delle tesi di Berra fu tale che già nel 1814 si poteva registrare un incremento di oltre trentaseimila pertiche di terreno messo a prato irriguo, oltre a quasi cinquemila pertiche in più a risaia rispetto al rilievo del 1805.
Fu con la pubblicazione del saggio “Dei prati del Basso Milanese detti a marcita”, stampato nel 1822, che Berra descrisse a fondo tutti i temi legati all'agronomia lombarda fin dall’età medievale. L’ambiente padano di questa pianura, più in dettaglio quello milanese, si è sempre dedicato all’allevamento del bestiame per la grande disponibilitàdi foraggio. Già in epoca gallica erano presenti molte praterie di tipo irrigue, dovute specialmente all’esistenza di corsi d’acqua superficiali e di paludi.
Il metodo di “far marcire” l’ultimo taglio sul prato, in modo da stagnare le acque d'inverno, fu praticato probabilmente all’inizio dell’era volgare: il nome attuale di marcita deriva infatti da “pratum marcidum”. Nel libro di Berra si dice che le marcite erano già state inventate prima del XVI secolo e il loro perfezionamento si era affiancato allo scavo e all’utilizzo delle acque dei fontanili. Grazie alla temperatura costante dell’acqua che scaturiva dai fontanili, si impediva che il terreno gelasse di inverno, permettendo così la crescita continua dell’erba.
La fortuna della tesi di Domenico proseguì oltre la sua morte; furono portavoce delle sue teorie, che venivano sempre piùdimostrate dalla pratica, personaggi quali Aurelio Saffi, Benigno Bossi e in modo particolare Carlo Cattaneo, nella sua attività legata alla politica e all’economia agraria. Infatti, in un saggio statistico del 1864 di Giorgio Manzi, considerato una sorta di proseguo dello studio del Berra, attraverso l’utilizzo di numerose tavole comparative, venivano registrate, comune per comune, le quantità di prati marcitori e il loro reddito annuo per le annate del 1825, 1844, 1851 e 1861.
Si dimostrava nella comparazione un incremento medio che andava dal 20% per le terre poste a marcita con punte del 110% in caso di abbinamento del prato foraggiero alla risaia. Importante èsottolineare inoltre che, all'epoca, la forza lavoro animale, derivata dal foraggio, era alla base dell'economia. Vivendo infatti nell’etàpre-industriale, erano impossibili movimenti di carri, merci, eserciti, senza la disponibilitàdi fieno, che può essere metaforicamente denominato la “benzina dell’epoca”.
Ecco dunque che le marcite, che potevano garantire anche dieci tagli dell’erba all’anno, acquistavano valore strategico per il paese che ne fosse dotato, ed ecco perciòspiegato l'innegabile valore di queste coltivazioni, ancora oggi simbolo del nostro territorio.