L’Arte della fuga
Sperimentalismo acceso che spezza i nessi spazio-temporali e si avvicina all’antiromanzo, dando vita ad un risultato di difficile lettura. Decisamente più fortunata la riscrittura semplificata del 1990.
«L’arte della fuga è stata, negli anni, la mia miniera. Racchiude tutti i temi che attraversano il mio lavoro e che in seguito ho ripreso e sviluppato: la scomparsa, il delitto, la lettera anonima, la fuga». Fondamentale laboratorio in cui Pontiggia condensa il nucleo della narrativa successiva e riversa in esso la sua sperimentazione, attraverso una gran mole di appunti e materiale preparatorio.
Si tratta di un romanzo tanto sperimentale da risultare di difficile lettura e ottenere scarso successo. Romanzo per cui Pontiggia fatica pure a trovare un titolo adeguato. L’obiettivo è quello di «abolire i nessi temporali e la consequenzialità della trama per fare un’opera che si leggesse in apertura di pagina». Un’opera che vuole affrontare la crisi del linguaggio tradizionale trovando soluzione in associazioni fantastiche e dialoghi nonsense che rievocano il teatro di Beckett.
Siamo di fronte ad un giallo in cui si ignora non solo chi è l’assassino, ma anche chi è la vittima. Un giallo tutto incentrato sul processo, sulla ricerca incessante di una verità che non può essere raggiunta, su un’investigazione che non dá risposte ma solo nuovi interrogativi.
Il volume viene nuovamente riproposto nel 1990, in una versione riveduta e ampliata, ben piú leggibile e decisamente meglio accolta da pubblico e critica. È una riscrittura che comporta diffuse varianti, come il recupero di sequenze allora escluse o lo spostamento interno di altre. Ma è soprattutto l’aggregazione dei frammenti in macrosequenze corredate da un titolo a semplificare la comprensione, suggerendo in modo esplicito la variazione del tema. Non scrive però parti nuove per non tradire l’intento di «riscrivere come si sarebbe scritto prima, se il proprio sguardo fosse stato piú lucido».