Le acque e la rissosità italiana
Seguendo la lingua delle acque nel corso dei secoli, ci s'imbatte spesso in contese e fatti di guerra: se gli scontri per il controllo di una via d'acqua sono testimoniati sin dagli albori della civiltà e gli allagamenti del campo nemico sono una pratica consueta dell’arte bellica, gli Italiani riescono però a primeggiare in questo campo, tanto per la loro litigiosità quanto per l'ardimento di alcuni progetti idraulici.
All’inizio del Trecento, il condottiero lucchese Castruccio Castracani progetta una chiusa sull’Arno presso lo stretto della Pietra Golfolina a Signa, per provocare un rigurgito delle acque a monte, fino a sommergere la città di Firenze, ma viene dissuaso dai maestri d’arte locali, secondo i quali la caduta dell’acqua è eccessiva e il rigurgito non può risalire fino a Firenze. Lo storico fiorentino Giovanni Villani, nel riferire il fatto, non appare risentito, anzi afferma che Castruccio ebbe gran cuore nel tentare l’impresa - oggi facciamo fatica a capire e condividere, anche perché "cuore" per noi ha un significato un po’ diverso.
Due secoli più tardi, i Fiorentini approfittano di una pausa della guerra tra Francia e Spagna per deviare l’Arno a sud di Pisa ed isolare così l’odiata rivale dal mare, ma, dopo ingenti spese, devono desistere, perché scoprono che la caduta dell’acqua nel nuovo alveo è insufficiente per giungere fino al mare. Questo il commento dello storico Francesco Guicciardini: "Ma questa opera, cominciata con grandissima speranza e seguitata con spesa ancor maggiore, riuscì vana: perché, come il più delle volte accade in simili cose, benché con le misure abbino la dimostrazione quasi palpabile, si ripruovano con l'esperienza [...]" (Storia d'Italia, VI, 11). C’è di che alimentare per secoli i motteggi dei Pisani alle spalle dei Fiorentini.
Talvolta le misure di sistemazione fluviale, offensive per il territorio del vicino, sono dettate da ragioni di difesa dalle acque, che mettono in gioco la sopravvivenza dello Stato che le intraprende. All’inizio del Seicento, Venezia, approfittando della debolezza di Ferrara dopo il ritiro a Modena della Casa d’Este, realizza il taglio di Porto Viro, per salvaguardare la laguna dall’interramento, e in tal modo indirizza le acque del Po verso sud, compromettendo la grande bonifica estense.
Il contrasto degli interessi genera peraltro una vitale competizione scientifica: è il caso della secolare contesa tra le città di Bologna e Ferrara, in merito all’inalveazione del fiume Reno, che i Bolognesi vorrebbero introdurre nel Po Grande ed i Ferraresi nell’Adriatico, con un più lungo e costoso percorso, attraverso il Cavo Benedettino e il Po di Primaro. Nel Settecento vince la tesi di Ferrara e la nuova inalveazione consente la bonifica delle vaste valli paludose, che si estendono tra le due città. Giustamente è stato affermato che questa interminabile contesa (tra due città appartenenti al medesimo Stato!) ha generato la scuola idraulica italiana.
Francesco Guicciardini nella Storia d'Italia riferisce in tono imparziale l'incredibile tentativo intrapreso dai Fiorentini di deviare il corso dell'Arno per isolare Pisa dal mare (VI, 11). Nella sua Compendiosa informazione di fatto sopra i confini della communità ferrarese d'Ariano con lo stato veneto 1735, apparsa a stampa senza luogo né data, Eustachio Manfredi (1674-1739) discute la questione del taglio di Porto Viro dal punto di vista storico-politico e da quello scientifico. La secolare contesa relativa all'inalveazione del fiume Reno è infine esemplificata da due opere: Le Scritture in materia del Reno per la città di Ferrara, che non riportano il nome dell'autore; e le Ragioni contra l'introduzione del Reno nel Po’ grande di Giovanni Ceva (1674-1734), apparse a Bologna nel 1716.