Raffaello Foresi era noto per la sua tendenza a dire la sempre la verità. Non aveva scrupoli, tutti erano a conoscenza dei suoi principi e dei suoi ideali.
Raffaello Foresi giudicava malamente gli Italiani del suo tempo, del 1870. Ne denunciava l’inerzia, l’incoscienza dei propri diritti e doveri. Il popolo italiano era disonesto, estraneo alla cultura, schiavo della cupidigia.
“Gli italiani del 1870! Una massa d’uomini inerti, incoscienti dei loro diritti e dei loro doveri, poco più di mezzo milione di elettori che muovensi a stento come lombrichi nella fanga di uno stagno, difetto di correnti storiche che ci trascinano a un punto determinato, un cencio di statua di una provincia italiana, indossato come la camicia di Nesso da tutta Italia. Un popolo oppresso spiritualmente da Pio IX, materialmente da Napoleone III, non rimesso a nuovo per un fermento di grandi commozioni, di grandi spaventi, di grandi idee, di grandi passioni, di grandi sacrifici. Pidocchi rivestiti per larghezza dello straniero, non preceduti nell’azione dalla speculazione che illumina, dagli apparecchi che assicurano il trionfo, capitanati da un re.. Onestà poca dappertutto, cultura ancora meno. Cupidigie senza confini, penuria di caratteri tutti d’un pezzo, amor platonico del passato, amore osceno del presente, nulla di cospicuo, nulla di bello, di forte, di magnanimo, di singolare, quel che di meglio ci resta sono i vecchi e le donne.”
Gli artefici di ciò erano spiritualmente il papa, Pio XI, materialmente l’imperatore francese, Napoleone III. Secondo la sua opinione, quando quest’ultimo discese in Italia, badò prima di tutto ai suoi interessi, tenne la penisola sotto una tutela rovinosa, ne impedì una libera espressione di sé, l’istituzione di un organizzamento politico originale: gli italiani erano vittime immobili della dominazione francese.
“Taluni si affliggono per Luigi Napoleone. Ricordino il colpo di stato preparato da un ambiziosa fedigrafo in compagnia di avventurieri, ricordino un governo personale durato 18 anni. Luigi Napoleone discese in Italia, badò prima di tutto ai propri interessi, tenne la penisola sotto un’odiosa tutela e si portò a Roma per impedire ogni nostro concetto spontaneo, ogni nostro atto originale di organizzamento politico. Meglio sarebbe stato che gli italiani fossero stati italiani veri e non dei falsi francesi. Ora la Francia ha aperto gli occhi e ha visto quanto sia costato il nipote dopo il nonno.”
Raffaello Foresi fu perciò fieramente Repubblicano. Fu infatti amicissimo e strenuo difensore di Francesco Domenico Guerrazzi e della sua idea repubblicana ed ebbe con lui una serrata corrispondenza epistolare, che però non fu pubblicata, in cui il Foresi riconfermò il suo odio verso i potenti ponendolo in contrapposizione al suo agire disinteressato, onesto, senza fini obliqui.
Nel 1860, inoltre, appena in vigore della legge sulla libera stampa, Raffaello Foresi pubblicò una lunga difesa di Guerrazzi. In quella difesa egli si scagliò contro la viltà degli oppressori del tribuno livornese con audacia e sdegno e, d’altra parte, vi era un forte amore patrio che percorreva tutta la narrazione.
Raffaello Foresi non fu, dunque, un monarchico. Condannò fortemente il fatto che il potere fosse concentrato nelle mani del governo, di Roma. Desiderò, invece, che i comuni acquistassero più autorità e più autonomia.
“Io non sono monarchico, ciò premesso vado franco e dico che il discorso del re non è cattivaccio. V’è detto che a Roma ci sa da ire e che alla perfine quivi ci manda il diritto nazionale, ci si trova accennato lodevolmente il disaccentramento, e con questo medesimo proposito dichiarato che debbano restituire i loro diritti ai comuni. Il guaio sta che gli interessi privati parlano in luogo dei pubblici, e la passione di parte in luogo della ragione tranquilla.”
Il Foresi serbò parole di rimprovero e di condanna anche per i parlamentari che si rifiutarono di andare a Roma, benchè ci fosse già il governo. Raffaello Foresi era infatti un Parlamentare: nonostante capisse il comportamento di alcuni che, chi per l’onore, chi per paura, chi perché era favorevole al mantenimento della capitale a Firenze, chi perché il trasferimento andava contro i suoi interessi, era contrario allo spostamento della capitale a Roma, tuttavia considerava ciò assai riprovevole e ingiustificabile.
“Questo indietreggiamento , o ritirata, o fuga che vogliam dire, dei membri onorevoli del parlamento è riprovevole. Di andarci a Roma tutti consentivano o in un modo o in un altro, e giacchè tutte le strade vi conducono, strana cosa che mentre il governo ci è già entrato, i sopraddetti onorevoli signori non ci vogliono andare. E capisco chi non ci vuole entrare per non aver avuto l’onore, la sorte, di capitanare l’ingresso nella città eterna, chi per aver contribuito a piantar la metropoli del regno a Firenze, chi per aver accomodato i suoi interessi, chi per eroico spavento di scuri … degni tutti di farne una fumata o di mandarli come i tacchini a suon di vergate.”