Amina Antoniazzi
L'importanza della dedica nella tradizione letteraria

2d1. L'importanza della dedica nella tradizione letteraria: il Sidereus Nuncius

L'opera stampata il 12 marzo del 1610 nella tipografia veneziana di Tommaso Baglioni e composta nell'inverno del 1609 dopo le osservazioni di Galilei sulla superficie lunare, i satelliti di Giove e oltre, porta il nome di Sidereus Nuncius, tradotto in passato come Nunzio delle Stelle o anche Annunzio sidereo, ma che si potrebbe anche rendere in termini più attuali con “rendiconto sulle stelle”. Esso è infatti letteralmente un rendiconto scientifico delle sue nuove scoperte, una rigorosa esposizione astronomica nella sua sobrietà e chiarezza che è rivolta ad un ampio pubblico di dotti (di qui l'uso del latino, la lingua ufficiale delle scienze e dalla cultura in genere).

Come da tradizione, il trattato galileiano si apre rivolgendosi al dedicatario: il “Serenissimo Cosimo II De Medici, IV Granduca di Toscana”; Galileo infatti, impegnato al tempo presso l'università di Padova, all'interno della Repubblica Veneziana, si trovava a dover affrontare problematiche tecnico-militari, che lo distraevano dall'approfondimento di aspetti più strettamente scientifici: fu forse questo il motivo che lo spinse a decidersi per il trasferimento a Firenze. Viene così spiegata la dedica del Sidereus Nuncius, che contiene anche un secondo omaggio culturale al principe: “quattro Stelle riservate al vostro inclito nome e non del numero gregario e meno insigne delle fisse, ma dell'ordine illustre dei Pianeti che con moto diverso, attorno a Giove nobilissima Stella, come progenie sua schietta, compiono l'orbita loro con celerità mirabile, e nello stesso tempo con unanime concordia compiono tutte insieme ogni dodici anni grandi rivoluzioni attorno al centro del mondo, cioè al Sole .”
Certamente la corte medicea aveva una lunga storia di ricchezza culturale e mecenatismo alle spalle e Galilei poteva aspettarsi a buon diritto l'apprezzamento di Cosimo II per la celebrazione nei suoi confronti, ma, come già accennato, questo incipit dedicatorio ha radici ben più profonde nella letteratura italiana; nei suoi vari esempi è sempre testimonianza del rapporto che intercorre tra l'intellettuale e chi detiene il potere, rapporto che, come si può immaginare, cambia nel corso del tempo, riflettendosi nello stile delle dediche iniziali. In particolare, di seguito si prenderanno in considerazione a titolo di esempio le opere di alcuni dei maggiori esponenti della nostra letteratura: la lettera dedicatoria “ad Magnificum Laurentium Medicem” ad apertura del Principe di Machiavelli , il proemio dell' Orlando Furioso di Ariosto e la Epistola a Cangrande della Scala di Dante Alighieri.

“Insigne istituzione certo e assai civile fu quella di coloro che tentarono di proteggere dall'invidia le opere famose di uomini eccellenti per virtù e salvare dall'oblio e dalla morte i nomi loro degni d'immortalità. Perciò si tramandarono alla memoria dei posteri immagini scolpite nel marmo o fuse in bronzo, perciò si posero statue pedestri ed equestri, perciò le spese per colonne e piramidi giunsero, come disse il poeta, alle stelle, per questo infine si costruirono le città e fu loro imposto il nome di quelli che i grati posteri vollero imperituri. Tale è infatti la condizione dell'umana mente che, se non è stimolata da immagini che di continuo le si presentino dall'esterno, ogni ricordo facilmente svanisce. Alcuni però che guardano a cose più salde e durature consacrarono la fama eterna di uomini sommi non a marmi o metalli, ma alla custodia delle Muse e agli incorrotti monumenti delle lettere.”

Queste le prime parole di Galilei, con riferimento (si poterebbe dire d'obbligo) al tema della memoria e dell'immortalità che l'uomo può raggiungere attraverso l'arte, la letteratura, ma non solo: Galilei infatti esalta come il più grande dono nel passo successivo (omesso) la possibilità di trovarsi nel firmamento per l'eternità, al pari del signore dell'Olimpo.
Le somiglianze con l'incipit del Principe, in cui ritorna il medesimo topos letterario, sono evidenti:

“Sogliono, el più delle volte, coloro che desiderano acquistare grazia appresso uno Principe, farseli incontro con quelle cose che infra le loro abbino più care, o delle quali vegghino lui più delettarsi; donde si vede molte volte essere loro presentati cavalli, arme, drappi d'oro, pietre preziose e simili ornamenti, degni della grandezza di quelli. Desiderando io adunque, offerirmi, alla vostra Magnificenzia con qualche testimone della servitù mia verso di quella, non ho trovato intra la mia suppellettile cosa, quale io abbia più cara o tanto esístimi quanto la cognizione delle azioni delli uomini grandi, imparata con una lunga esperienzia delle cose moderne et una continua lezione delle antique”

Con queste parole Machiavelli sceglie di far dono del proprio trattato a Lorenzo che deteneva allora il potere a Firenze, con pieno appoggio del Papa e zio Leone X Medici; si ricordi che chi scrive è un intellettuale politicamente sconfitto, esiliato dopo la caduta di Pier Soderini e la ripresa del potere appunto da parte della famiglia Medici. Questa lettera sembrerebbe rappresentare una totale sottomissione al nuovo potente nel tentativo di riconquistare il prestigio e le cariche statali perduti, tuttavia la prudenza con cui è scritta, il tono rispettoso ma che ci tiene a non essere servile sottendono una rivendicazione orgogliosa della propria lunga esperienza politica: Machiavelli si limita a porre a servizio del potente il suo sapere, cercando di non risultare troppo opportunistico. In confronto, la posizione di Galilei è meno delicata al momento della pubblicazione del Sidereus Nuncius, e il suo omaggio al principe può liberarsi in toni decisamente celebrativi:

“E lo stesso Artefice delle Stelle parve con segni manifesti invitarmi a dedicare al nome eccelso della vostra Altezza piuttosto che ad altri questi nuovi Pianeti. Infatti, come queste Stelle, quasi prole degna di Giove, non si staccano mai dal suo fianco se non di poco, così chi ignora che la clemenza, la mitezza d'animo, la soavità dei modi, lo splendore del regio sangue, la maestà delle azioni, l'eccellenza dell'autorità e dell'imperio, che tutte collocaron domicilio e sede nella vostra Altezza, chi, dico, ignora che tutte queste virtù emanano dal benignissimo Astro di Giove, dopo Dio fonte suprema d'ogni bene? […] Chi infatti può aver dubbio che l'aspettazione che del vostro impero suscitaste con felicissimi auspici, quantunque somma, non solo manteniate alta e custodiate, ma siate per superare in lungo intervallo di tempo? sì che quando avrete superato tutti i vostri simili, gareggerete con voi stesso, e di voi e della grandezza vostra sarete di giorno in giorno maggiore.”

Rientra poi tra i caratteri essenziali di modestia e sottomissione al signore, la tendenza a sminuire il proprio lavoro. Un caso particolare è quello di Ariosto, letterato di corte a Ferrara, presso il duca Alfonso d'Este, a cui si era legato dopo aver abbandonato il primo “protettore”, il cardinale Ippolito d'Este, partito come nunzio apostolico in Ungheria. Amante della vita sedentaria, Ludovico Ariosto rimane dunque al servizio di Alfonso: tuttavia troverà modo di esprimere le proprie riserve circa il trattamento ricevuto e i compiti affidatigli a corte in modo velato nel proemio della sua opera maggiore, l'Orlando Furioso, ma anche, più esplicitamente, nelle Satire.

“Piacciavi, generosa Erculea prole,
ornamento e splendor del secol nostro,
Ippolito, aggradir questo che vuole
e darvi sol può l'umil servo vostro.
Quel ch'io vi debbo, posso di parole
pagare in parte e d'opera d'inchiostro;
né che poco io vi dia da imputar sono,
che quanto io posso dar, tutto vi dono.
Voi sentirete fra i più degni eroi,
che nominar con laude m'apparecchio,
ricordar quel Ruggier, che fu di voi
e de' vostri avi illustri il ceppo vecchio.
L'alto valore e' chiari gesti suoi
vi farò udir, se voi mi date orecchio,
e vostri alti pensieri cedino un poco,
sì che tra lor miei versi abbiano loco.”

Sono questi il terzo e quarto paragrafo del primo canto, dove si fa riferimento ad Ippolito d'Este (“ornamento e splendor del secol nostro”), in termini di reverente rispetto, quasi Ariosto fosse intimidito dal suo splendore, ma ben più ironico è il commento appena successivo: il cardinale potrà ascoltare il racconto di Ruggiero, leggendario capostipite degli Estensi, soltanto se i suoi “alti pensieri cedino un poco”, si abbassino fino al livello dei versi del poema ariostesco. E' invece nota la stima che Ariosto stesso avesse dei propri versi, e il suo scarso interesse per gli avvenimenti politici del tempo. Le sue parole vanno lette dunque in chiave ironica: esse sono un'antifrasi che vuole ricordare la sua importanza, spesso trascurata, all'interno della corte.

Questi elementi polemici sono completamente assenti nella epistola di Dante Alighieri a Cangrande della Scala, Signore di Verona dal 1308 al 1311, il quale si era rivelato un generoso ospite per il poeta fiorentino, tanto che le note encomiastiche della lettera sono comunque connotate da un'amicizia tra i due:

“La gloriosa lode della vostra magnificenza, che la fama vigile diffonde a volo, induce i diversi individui a differenti reazioni, così da esaltare gli uni alla speranza della propria prosperità e da prostrare gli altri nel terrore della morte. Un tempo io ritenevo esageratamente superflua, in verità, la vostra rinomanza, troppo al di sopra delle imprese degli uomini d'oggi, quasi al di fuori della realtà dei fatti. In verità, per non restare sospeso in un'eccessiva incertezza, come la regina della terra dove soffia l'Austro si diresse a Gerusalemme, come Pallade raggiunse l'Elicona, mi sono recato a Verona per controllare con i miei occhi ciò che avevo udito e lì ho visto le vostre grandi opere: le ho viste e, contemporaneamente, ne ho goduto i benefici; e allo stesso modo in cui, prima, sospettavo esagerato parte di quel che si diceva, dopo mi sono reso conto che le imprese in sé erano esorbitanti. Così è successo che in precedenza ero bendisposto, con una certa qual soggezione della mente, ma in seguito, da quanto ho visto, mi ritrovo a voi devotissimo e amico.” [trad. it. M.A. Garavaglia]

Dante è il primo grande intellettuale medievale che potrebbe essere considerato cosmopolita, attributo che sarà poi fondamentale per l'intellettuale umanista e rinascimentale, tuttavia i suoi viaggi di corte in corte sono sempre frutto di una necessità dettata dall'esilio. Così come Machiavelli lamenta la lontananza dalle attività politiche della sua Firenze e cerca la riconciliazione e il compromesso con Lorenzo de Medici, Dante ringrazia sinceramente il suo benefattore, ma il suo cuore rimane a Firenze e non sente uno stretto legame di servitù nei confronti di Cangrande.

Per ritornare da dove si è iniziato, è ancora da chiarire il rapporto con il potere in Galilei: esso rimani infatti un punto ancora dibattuto anche dai critici contemporanei. C'è chi vede in lui il teorico dell'autonomia della scienza da ogni altra autorità, religiosa e politica, e chi invece trova nella sua ricerca di un compromesso con la Chiesa, e poi nella sua abiura la riprova della subordinazione di Galilei nei confronti del potere costituito. Questa oscillazione di giudizio si può trovare nelle tre diverse versioni di “ Vita di Galileo” di Bertolt Brecht; nella prima del 1938-39 l'abiura è giustificata dal desiderio di proseguire la propria ricerca scientifica, nella seconda del 1945 (dopo la bomba di Hiroshima) e nella terza di qualche anno dopo Galileo fa una dura autocritica: l'abiura diventa un cedimento nei confronti del potere che ha subordinato la scienza ai fini soprattutto bellici delle classi dominanti.

Bibliografia:
1. R. Luperini, P. Cataldi, L. Marchiani, F. Marchese, La Scrittura e l'interpretazione, storia e antologia della letteratura italiana nel quadro della civiltà europea, vol. I, II e III, Palumbo editore;
2. F. Cioffi, G. Luppi, A. Vigorelli, E. Zanette, A. Bianchi, M. De Pasquale, I filosofi e le idee, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, 2005.