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Un itinerario nella Milano del dopoguerra attraverso l’obbiettivo di Paolo Monti che, con i suoi scatti, ha documentato una città ancora segnata dalle cicatrici della guerra, ma pronta a riprendere il suo ruolo di capitale del lavoro e centro finanziario del Paese. Gli anni Cinquanta e Sessanta del XX secolo sono cruciali per la ricostruzione e lo sviluppo del capoluogo lombardo in cui riecheggiano i rumori dei cantieri che coinvolgono tutto il tessuto urbano, dal centro alla periferia e anche nel sottosuolo con la costruzione della prima linea metropolitana che porterà sensibili conseguenze nell’assetto urbanistico. Sulla base del nuovo Piano Regolatore di ampliamento, approvato nel 1953, si aprono nuovi assi viari per decongestionare il centro e per favorire l’accesso alla città e si sposta il centro direzionale tra la Stazione Centrale e Porta Nuova. Milano, dinamica e pragmatica, è terreno fertile per le sperimentazioni di una nuova generazione di professionisti inclini a una certa libertà espressiva, architetti vicini sia al mondo dell’ingegneria e quindi alla ricerca strutturale e di nuovi materiali, sia al mondo dell’arte. Sono nomi illustri, ciascuno con la sua personale interpretazione del dibattito architettonico, oscillante tra la fiducia nella modernità e la volontà di creare un ponte tra il nuovo e le preesistenze. 

Paolo Monti, scorcio della Stazione Centrale sullo sfondo del grattacielo Pirelli, 1960-1981 circa mappa

Gli architetti del dopoguerra, dal gruppo BBPR a Gio Ponti, Vico Magistretti, Giovanni Romano, Ignazio Gardella e molti altri, sono chiamati a ridisegnare lo skyline e il volto del territorio di Milano. Spinti da una volontà di rottura, prendono le distanze dai dogmi del passato creando architetture moderne che vanno a inserirsi nelle ferite ancora aperte lasciate dai bombardamenti alleati, distruzioni che, cinicamente, hanno liberato aree permettendo una ricostruzione e un rinnovamento urbano impensabile prima della guerra, che, nei casi più eccellenti, ha prodotto opere come la Torre Velasca e il grattacielo Pirelli, ancora oggi simboli di Milano ed esempi di perfetta integrazione tra arte e tecnica. Compito di questa generazione di professionisti è anche quello di confrontarsi sia con le necessità pragmatiche di una nuova utenza, la massa anonima che giunge a Milano richiamata dal boom economico, sia con un nuovo paesaggio urbano, la periferia in forte espansione. Nascono così i quartieri di edilizia residenziale pubblica, campo di sperimentazione, confronto e ricerca di quell’idea di qualità diffusa tanto amata da Gio Ponti, un’illusione che negli anni si scontrerà con l’incapacità di gestire il fenomeno della pressione demografica da parte dell’amministrazione cittadina.

Gli architetti del dopoguerra, dal gruppo BBPR a Gio Ponti, Vico Magistretti, Giovanni Romano, Ignazio Gardella e molti altri, sono chiamati a ridisegnare lo skyline e il volto del territorio di Milano. Spinti da una volontà di rottura, prendono le distanze dai dogmi del passato creando architetture moderne che vanno a inserirsi nelle ferite ancora aperte lasciate dai bombardamenti alleati, distruzioni che, cinicamente, hanno liberato aree permettendo una ricostruzione e un rinnovamento urbano impensabile prima della guerra, che, nei casi più eccellenti, ha prodotto opere come la Torre Velasca e il grattacielo Pirelli, ancora oggi simboli di Milano ed esempi di perfetta integrazione tra arte e tecnica. Compito di questa generazione di professionisti è anche quello di confrontarsi sia con le necessità pragmatiche di una nuova utenza, la massa anonima che giunge a Milano richiamata dal boom economico, sia con un nuovo paesaggio urbano, la periferia in forte espansione. Nascono così i quartieri di edilizia residenziale pubblica, campo di sperimentazione, confronto e ricerca di quell’idea di qualità diffusa tanto amata da Gio Ponti, un’illusione che negli anni si scontrerà con l’incapacità di gestire il fenomeno della pressione demografica da parte dell’amministrazione cittadina.

Il grattacielo Pirelli, simbolo di Milano

Paolo Monti, il grattacielo Pirelli, 1960-1965 circa mappa

“In Milano il grattacielo Pirelli, a parte la sua incontestabile bellezza, e forse proprio per questo, è un grande personaggio […]” scrisse Dino Buzzati nel 1970. Edificio simbolo del nuovo centro direzionale voluto dal Piano Regolatore del 1953, il grattacielo Pirelli, costruito tra il 1956 e il 1960, svetta su piazza duca d’Aosta con i suoi 127 metri di altezza da oltre 70 anni, espressione del dinamismo dell’imprenditoria manifatturiera lombarda. Progettato da un team interdisciplinare di professionisti coordinati dall’architetto Gio Ponti come nuova sede amministrativa del gruppo industriale Pirelli, in piena crescita post bellica, all’epoca era uno degli edifici in calcestruzzo armato più alto al mondo, espressione del prestigio della società committente e metafora del successo di una città, Milano, in piena rinascita, che si presenta sulla scena internazionale come un laboratorio di idee, di ricerca artistica e architettonica e non solo. 

La sagoma del grattacielo Pirelli, allo stesso tempo imponente, ma snella e leggera, che in breve tempo è entrata nell’immaginario collettivo dei milanesi, è frutto dell’applicazione di soluzioni tecniche e statiche all’avanguardia studiate da Pier Luigi Nervi e Arturo Danusso, che permisero di concentrare i carichi dei solai sul minor numero possibile di strutture portanti. La facciata continua o curtain wall è realizzata in vetro e alluminio, mentre la struttura in cemento è rivestita in piastrelline.
Gio Ponti lo definì un cristallo luminoso che riflette la luce del giorno sulle strade e sugli edifici che lo circondano e si illumina di notte di luce propria. Gli alti costi di gestione e il piano di riassetto aziendale messo a punto dalla Pirelli alla fine degli anni Settanta, porteranno nel giugno del 1978 alla cessione del grattacielo alla Regione Lombardia: il grattacielo da simbolo della capacità imprenditoriale lombarda divenne il simbolo della stessa realtà territoriale.

Paolo Monti, veduta notturna del grattacielo Pirelli, 1960-1965 mappa

Paolo Monti, la Torre Galbani in via Fabio Filzi 25 a Milano, 1962 circa mappa

La Torre Galbani, perfetta sintesi tra arte e architettura 

Di fronte al grattacielo Pirelli, tra il 1956 e il 1959, gli architetti Ermenegildo ed Eugenio Soncini, coadiuvati dagli ingegneri Pier Luigi Nervi e Giuseppe Pestalozza, eressero un edificio alto circa 40 metri, affiancato da due corpi minori, destinato a ospitare i nuovi uffici della Galbani spa, fondata nel 1880. La società vi si trasferì nel 1960. La torre, dalla particolare forma prismatica asimmetrica, secondo la richiesta dei committenti doveva essere la vetrina dell’azienda e quindi caratterizzarsi non solo sul piano architettonico, ma anche artistico. Ecco che alla sommità del palazzo, un involucro di lastre in cristallo verde-azzurro, venne posta la scultura geometrica dell’artista Enrico Ciuti, parte integrante dell’edificio e perfetto esempio del dialogo tra architettura e arte. Come per il grattacielo Pirelli, Pier Luigi Nervi e Gaspare Pestalozza idearono per l’edificio della Galbani una soluzione strutturale che prevedeva pochi pilastri sui quali scaricare il peso dei solai prefabbricati autoportanti di soli tre centimetri di spessore, garantendo la più ampia flessibilità distributiva degli uffici interni. 

Grande attenzione fu posta anche nello studio dell’estetica dell’edificio. Nell’atrio gli architetti sfruttarono la particolare conformazione dei solai che, lasciati a vista, creano una scenografica onda, caratterizzando l’ambiente, inoltre l’alluminio delle fasce marcapiano, del contorno delle aperture e delle tapparelle alla veneziana fu anodizzato utilizzando un particolare colore tendente al blu, detto “canna di fucile”, così da non intaccare l’uniformità delle facciate e i particolari giochi di colori e riflessi che la luce, nelle diverse ore del giorno, crea sulla superficie. Non è tutto, sia all’interno che all’esterno del palazzo, alcune pareti furono rivestite con lamiere smaltate artisticamente a fuoco da Enrico Ciuti. 

Particolare della scultura di Enrico Ciuti che era stata posta alla sommità della Torre mappa

Paolo Monti, la Torre Tirrena o Liberty Tower in piazza Liberty a Milano, 1957-1960 circa mappa

La Torre Tirrena,
il neoliberty a Milano
Commissionata dalla Tirrena Assicurazioni nel 1955-1956 a Eugenio ed Ermenegildo Soncini, coadiuvati per i calcoli strutturali dall’ingegnere Cesare Fermi, come quinta scenografica a chiusura di piazza Liberty, la Torre Tirrena è una perfetta sintesi tra composizione architettonica e soluzioni tecniche innovative. Il risultato è un edificio dove tutto, estetica e statica, è giocato sugli esili pilastri aggettanti, che si sdoppiano tra il primo e il secondo piano, per tornare a raccordarsi alla sommità dell’edificio. Questi pilastri binati scandiscono il ritmo del prospetto grazie alle ombre che proiettano sulla superficie continua delle lastre in cristallo, donandogli rilievo e movimento, accentuato anche dall’uso di materiali diversi: klinker grigio-verde per le strutture portanti e alluminio anodizzato nero per le fasce marcapiano. 

La Torre Velasca,
il dialogo con l’antico

Negli stessi anni in cui veniva innalzata la Torre Tirrena, a poca distanza, prendeva forma l’idea della costruzione di un nuovo edificio, la Torre Velasca, intitolata a Juan Fernàndez de Velasco (governatore di Milano dal 1592 al 1612), tra via Pantano, via Velasca e corso di Porta Romana. Il progetto, a cura del gruppo BBPR (Gian Luigi Banfi, Ludovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti, Ernesto Nathan Rogers), è rivoluzionario: l’edificio viene concepito come elemento a sé stante, chiuso e finito e non composto da strutture ritmiche ripetibili all’infinito che caratterizzano i grattacieli contemporanei. Come scrisse l’architetto e progettista della Torre, Ernesto Nathan Rogers nel 1958, anno della chiusura del cantiere, “la Torre si propone di riassumere culturalmente e senza ricalcare il linguaggio di nessuno dei suoi edifici, l’atmosfera della città di Milano, l’ineffabile, eppure percepibile caratteristica”.

Paolo Monti, la Torre Velasca, 1956-1960 mappa

Paolo Monti, particolare della parte superiore della Torre Velasca mappa

Alta 106 metri e realizzata in calcestruzzo (i calcoli strutturali si devono allo studio di Arturo Danusso), la Torre Velasca è in un continuo dialogo con le antiche architetture della città: la forma “a fungo” evoca la Torre del Filarete del Castello Sforzesco, gli elementi portanti verticali che si staccano dalle facciata nel punto in cui questa si dilata a sbalzo, come antichi contrafforti medievali, ricordano le strutture gotiche del Duomo e anche alcune scelte estetiche, come l’uso del rivestimento in graniglia di marmo e klinker, sembrano evocare la cattedrale. Definita dallo storico dell’arte Philippe Daverio “un capolavoro assoluto”, insieme al grattacielo Pirelli di Gio Ponti, è il simbolo della rinascita economica e culturale post bellica di Milano, una città che punta alla modernità, ma senza rompere con la tradizione.

Il progetto modulare della Scuola Umanitaria

Paolo Monti, il cortile interno della Scuola Umanitaria, 1963 circa mappa

Fondata nel 1893, la Società Umanitaria è una delle istituzioni benefiche più antiche di Milano, volta ad aiutare i bisognosi fornendo loro istruzione e lavoro. La sede occupava i chiostri dell’ex convento di via San Barnaba, distrutto dai bombardamenti del 1943. Al termine del conflitto la necessità di avere un luogo dove ospitare l’associazione era impellente e l’appalto venne dato agli architetti Giovanni Romano e Ignazio Gardella. 
I cantieri aprono nel 1947 e il progetto è basato su un sistema modulare, il cui modulo base è il banco, che consente di ridimensionare gli spazi interni in base alle necessità. Il complesso, organizzato in volumi indipendenti, è costruito in cemento armato e prevedeva diversi spazi comuni, oltre a integrare l’antico refettorio del monastero, sopravvissuto alle bombe.

Paolo Monti, particolare del complesso Corso Italia, 1950-1970 circa mappa

Una lama nel tessuto storico,
il complesso di corso Italia

Nel 1949-1955, tra via Rugabella e corso Italia, un’area colpita dai bombardamenti alleati e interessata dal piano di ricostruzione, che proponeva un modello urbano basato su alti blocchi edilizi con destinazioni differenti, si inserisce il complesso polifunzionale progettato da Luigi Moretti. Non è un edificio chiuso e finito che si sviluppa in altezza, ma piuttosto una quinta urbana composta da diversi elementi, differenti per dimensioni, soluzioni di facciata, orientamento e destinazione, ma unitari nell’immagine d’insieme, una piccola città nella città con percorsi e spazi interni che si innestano nel tessuto urbano preesistente. Il progetto ha il suo punto focale nella palazzina a uso uffici che sembra essersi adagiata sul corpo sottostante, una “lama” che si protrae, come la prua di una nave, verso corso Italia. 

La Torre al Parco

Uno degli edifici residenziali più interessanti della Milano anni Cinquanta, è la Torre al Parco, destinata alla borghesia milanese e commissionata a Vico Magistretti e Franco Longoni dalla Liquigas S.p.A. Viene realizzata nel 1953-1956 in via Revere, accanto al Parco Sempione. L’elegante soluzione adottata per la Torre è quella di un edificio che si apre all’ambiente circostante con cui instaura un rapporto dialettico privilegiato. Magistretti e Longoni reinterpretano il tema della casa con l’obiettivo dichiarato di distaccarsi dall’idea “del grattacielo inteso come algebrica moltiplicazione di piani troncata a una certa altezza dai regolamenti, per restituire […] una individualità di singole dimore”. Flessibilità è la parola chiave. Due piani tipo sono alternati secondo un ritmo solo in apparenza irregolare, ma in realtà basato sull’alternarsi dei pieni e dei vuoti, giocati su tre tipologie di aperture: le finestre, le logge e le grandi terrazze sottolineate dalle solette a sbalzo. Il risultato è un organismo di grande espressività ottenuto con soluzioni semplici. 

Paolo Monti, la Torre al Parco, 1956-1970 circa mappa

Paolo Monti, la Torre di Vico Magistretti in piazza Aquileia, 1965 circa mappa

La Torre Aquileia, flessibilità a misura d’uomo

Iconica è la Torre di Vico Magistretti in piazza Aquileia edificata nel 1962-1964. Nascosta alla vista dalla strada, è parte di un complesso che comprende anche un blocco in linea rivolto verso la città. I due edifici sono collegati da un giardino interno e hanno facciate in cemento a vista con inserti intonacati in grigio o marrone. L’edificio su strada ospita appartamenti di grandi dimensioni e dal taglio regolare con ampie balconate sul fronte, mentre in quello a torre è prevista una maggiore libertà compositiva sia in pianta, sia nello studio dei volumi. L’edificio di Magistretti si discosta dal concetto di architettura compiuta e immutabile per un’idea di casa pensata per chi la abita, dove è bandita la rigidità a favore della flessibilità. Il risultato è un edificio in cui, alla variabilità planimetrica interna, che permette appartamenti di taglio diverso, dai più piccoli ai duplex, corrisponde un articolato gioco di volumetrie esterne dato dalla forte plasticità dei volumi, dai balconi aggettanti e dallo svuotamento dell’angolo dell’edificio ottenuto grazie a finestre a tutta altezza.

Da scalo ferroviario a quartiere borghese, via Ippolito Nievo

Omogeneo e immediatamente identificabile, il quartiere Nievo, lungo l’omonima via, è stato edificato negli anni Cinquanta e Sessanta del XX secolo, ma un progetto di riqualificazione di questa zona, interessata dallo scalo ferroviario di smistamento della linea Milano-Mortara, dismesso dopo la costruzione della Stazione Centrale, era già in discussione nel 1931-1934. Qui nel 1906, in occasione dell’Esposizione Universale passava l’avveniristica ferrovia sopraelevata che collegava il Parco Sempione alla Piazza d’Armi, poi smantellata. Al termine della Seconda guerra mondiale il dibattito sulla destinazione dell’area riprese e una parte venne destinata a verde, l’attuale Parco Pallavicino, mentre la restante fu adibita a edilizia residenziale alto borghese. Al progetto, che prevedeva una serie di palazzi, con identico orientamento e volumetria, colleganti da ponti attrezzati in cemento armato con funzione di ingresso alla corte comune, parteciparono nomi importanti del dibattito architettonico dell’epoca, da Gio Ponti a Luigi Caccia Dominioni, cui si devono i palazzi al numero 28A di via Nievo del 1955-1957 e al numero 10, edificato nel 1964-1965. 

Paolo Monti, edifici in costruzione nel quartiere Nievo, 1960 circa mappa

La periferia riqualificata, il quartiere Harar

Paolo Monti, un “grattacielo orizzontale” del quartiere Harar, 1950-1970 mappa

Il quartiere Harar è un complesso di edilizia residenziale pubblica in una zona periferica, tra i quartieri di Quarto Cagnino e San Siro, vicino allo stadio, realizzato tra il 1950 e il 1955 nell’ambito del piano INA Casa per la costruzione di case popolari, voluto dalla legge Fanfani del 1949. Il piano aveva l’obiettivo di rilanciare l’attività edilizia e dare lavoro e alloggi alle famiglie di basso reddito. 
Il quartiere Harar fu tra i più riusciti e vivibili ed ebbe un ruolo molto importante nell’ambito del dibattito culturale italiano del dopoguerra. Il piano urbanistico fu studiato dagli architetti Luigi Figini, Gino Pollini e Gio Ponti e prevedeva oltre 900 alloggi su un’area di 137.000 metri quadri per un totale di 5.500 abitanti. 

Paolo Monti, le villette unifamiliari del quartiere Harar, 1950-1970 mappa

Due erano le tipologie di abitazioni studiate per ospitare la popolazione: 9 edifici in linea di 5 piani disegnati secondo lo stile razionalista e noti come i “grattacieli orizzontali”, e le case unifamiliari con giardino privato raggruppate in 12 isolati, le insulae, che mostrano punti di contatto con l’edilizia rurale. Un contrasto simbolico del passaggio dalla campagna all’area urbana. Al centro del complesso, nello spazio verde ricavato, erano previsti gli edifici scolastici e i servizi. I progetti furono affidati ad architetti diversi dell’ambito milanese, oltre a Figini, Pollini e Ponti intervennero Paolo Antonio Chessa, Alberto Rosselli, Piero Bottoni, Antonio Fornaroli, Tito Bassanesi Varisco, solo per citare alcuni nomi.

Paolo Monti, Palazzo delle Nazioni nella Fiera di Milano (demolito nel primo decennio del 2000 per la costruzione del quartiere CityLife), 1951 circa mappa

La Fiera di Milano, icona della rinascita

La Fiera di Milano nel 1946, dopo la pausa della guerra, nonostante sia ancora segnata dai bombardamenti riapre in versione ridotta. L’obiettivo, è ripartire, dimostrare di essere in grado di risollevarsi. Vengono investite importanti risorse nella costruzione dell’emiciclo dell’industria tessile, opera di Pier Luigi Nervi e Giuseppe de Finetti e del Palazzo delle Nazioni progettato dagli architetti Angelo Bianchetti e Cesare Pea in un rigoroso stile razionalista con le facciate in vetro a filo”, senza soluzione di continuità. Gio Ponti nel 1948, sulla rivista Domus, loda il Palazzo per l’inedito rapporto tra pieni e vuoti e la nuova percezione notturna dell’architettura, non più illuminata dalla luce lunare, ma messa in risalto da quelle artificiali che la illuminano dal basso. È l’inizio di un periodo molto vitale per la Fiera che vede la partecipazione di diverse aziende, tra le più importanti nel panorama italiano dell’epoca, che credono nella ripartenza e investono. I nomi, solo per citarne alcuni, sono Breda, Montecatini, Agip (nel 1953 assorbita dall’Eni) e Fiat.
In poco tempo la Fiera di Milano diventa l’appuntamento fieristico internazionale più importante del Paese e, tra il 1947 e i primi anni Cinquanta, le aziende che garantiscono una presenza stabile all’evento, si dotano di un loro padiglione. La Breda ne affida il progetto a Bianchetti e Pea e negli anni la realizzazione degli interni è curata da figure di primo piano come Erberto Carboni, Marcello Nizzoli, Franco Albini ed Enrico Ciuti. I fratelli Achille e Gian Giacomo Castiglioni e Bruno Munari tra il 1953 e il 1968 realizzano per la Montecatini stand di grande impatto. Anche Fiat si dota di una struttura, meno imponente, ma che sviluppa di anno in anno in base alle esigenze e alle dimensioni dei prodotti industriali da presentare. 

Paolo Monti, padiglione Fiat nella Fiera di Milano, 1950-1970 circa mappa


La facciata del padiglione dell’Eni, ideata da Errico Ascione nel 1959 in uno scatto di Paolo Monti. La struttura è rivestita con una gigantografia della sezione geologica di un terreno petrolifero. L’effetto è ottenuto applicando 25.000 pezzi di legno verniciato in nero che riprendono i segni utilizzati dai geologi per rappresentare i differenti tipi di terreno.

Agip nel 1949, sotto la vicepresidenza di Enrico Mattei, organizza la sua prima esposizione in Fiera e del 1951 è la costruzione del padiglione dedicato, affidato a Mario Bacciocchi, in un’ area triangolare nei pressi di Porta Meccanica. La parte centrale dell’edificio, a doppia altezza, era coperta da una cupola e un’apertura circolare nel pavimento sottostante comunicava direttamente con il piano interrato. Per Mattei la Fiera era un momento di grande visibilità per l’azienda e i nuovi prodotti, oltre che un efficace strumento pubblicitario e di marketing. A questo scopo nel 1959 affida a Leonardo Sinisgalli, già attivo per la Olivetti, la Pirelli e Finmeccanica, il settore della Propaganda e Pubblicità. Sinisgalli lavora con un gruppo di professionisti tra cui giovani artisti come l’architetto Errico Ascione, cui si devono i padiglioni del 1959 e del 1960.

Paolo Monti, il padiglione dell’Eni allestito nel 1960 da Errico Ascione. L’architetto ha ricreato sulla facciata dell’edificio la mappa della valle padana con le ricerche effettuate nel sottosuolo dall’Agip Mineraria resa come una composizione astratta.

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Crediti

La mostra è stata realizzata dalla Fondazione BEIC nell’ambito del progetto “Milano nelle fotografie di Paolo Monti”, sostenuto dalla Fondazione Banca Popolare di Milano.
Testi e selezione delle immagini a cura di Benedetta Gallizia di Vergano e Michele Stolfa.